Il giorno della civetta – Leonardo Sciascia

Il giorno della civetta Leonardo Sciascia

Non avevo mai letto Sciascia, lo confesso. Neanche alle scuole medie, cui ‘il maestro’ aveva destinato Il giorno della civetta, il racconto che ho appena finito di leggere.

Ho cominciato da qui, e ho intenzione di continuare. Forse perché in questa Italia futile e corrotta ho bisogno di serietà, impegno, rispetto, semplicità e umanità.

Ho bisogno di poesia e di verità, di bella scrittura e di condividere una malinconica, lucida visione.

La serena consapevolezza che ogni sfida richiede coraggio, prudenza, pazienza.

E non si tratta di essere eroi.

Nel paese siracusano di S. il capitano Bellodi indaga con intuito da segugio su un omicidio a cui ne faranno seguito altri.

Barruggieddu – bargello ‘un cane della legge […] col mio breve raggio di corda, col mio collare, col mio furore’.

Il giorno della civetta ha inizio con un uomo ammazzato alla luce del sole mentre insegue la corriera sotto gli occhi dei passeggeri già a bordo e di un venditore di panelle, e – naturalmente – nessuno ha visto niente.

Il capitano si districa abilmente tra gli interrogatori della gente del paese che non sa nulla e non ricorda niente, di ‘confidenti’-informatori e indiziati, tra lettere anonime e soffiate, arrivando a scoprire la verità grazie alla sua comprensione dell’animo umano piuttosto che agli sparuti indizi raccolti.

Non mi ricordo … sull’anima di mia madre non mi ricordo, mi pare che sto sognando.
Ti sveglio io ti sveglio’ – s’infuriò il maresciallo.
Perché – domandò il panellaro, meravigliato e curioso – hanno sparato?. Con una prontezza e un umorismo tutto meridionale.

E Sciascia non è solo un narratore di storie.


Descrive silenzi, dipinge anime con sottili tocchi di luce.


Nera semenza della scrittura, spietata inquisizione di parole poeticamente calibrate che scolpiscono un’umanità viva, una Sicilia stanca, di tela bianca, di uova e di carbone che odora di trigonella e di legna bruciata e se ne sta in disparte, nascosta nell’ombra di fascisti e partigiani.


E quelli del continente sono già affascinati dalla sua impenetrabilità e Roma laccata d’oro e di grande bellezza manovra a distanza le sorti del paese.

Era il 1960 e non si parlava ancora di mafia, si diceva…. ‘è una fantasia’ e il Governo esplicitamente la negava, mentre oggi mi torna in mente la chiacchierata di qualche anno fa in Grecia con un perfetto sconosciuto che mi dice che l’Italia è mafia – ma non come la mia Napoli è pizza, mandolino e Pulcinella (e Gomorra) agli occhi di uno straniero.


Mi spiega: ‘in Italia la politica è mafia, tutto il paese è mafia, è corruzione, e non esiste una giustizia sociale, una meritocrazia, una legge che tuteli chi non ha gli amici giusti’.


Cosa posso rispondergli?


Lo shakespeariano uccello notturno non si muove più nell’ombra ma alla luce del sole.


È Il giorno della civetta.

Ripenso a Sciascia che nella nota al testo spiega che ha impiegato un anno a ‘cavare’, a limare il suo racconto per non urtare la suscettibilità di qualcuno, incappare in ‘imputazioni di oltraggio e vilipendio’ e poter conservare la libertà (che in questo paese non è mai piena libertà), di scrivere, documentare, denunciare, ‘insegnare’, scegliendo il racconto piuttosto che il saggio o l’inchiesta per raggiungere il più vasto pubblico.

Perché in Italia, si sa, non si può scherzare né coi santi, né coi fanti: e figuriamoci se, invece che scherzare, si vuol fare sul serio.

Il capitano Bellodi è già Giovanni Falcone, è tutti gli eroi antimafia che l’Italia ha conosciuto.


Profetico il racconto. Ne Il giorno della civetta il capitano è penosamente scettico sull’antimafia mentre scopre di non poter fare a meno di combattere la mafia e si chiede se non abbia già varcato la soglia ‘di una vuota oscura cripta’.

Mi ci romperò la testa è la solenne ammissione.

Due torvi figuri nei loro scuri cappotti venuti dalla Sicilia – ‘sono un pezzo di questione meridionale’ – invitati ad assistere a una seduta parlamentare sono increduli.

La luce era quella che al loro paese annunciava certi temporali: quando le nuvole, spinte dal vento del Sahara, raccogliendosi in un lento ribollire, filtravano luce di sabbia e d’acqua; una curiosa luce, che dava alle cose una superficie di raso.

Una raffica di insulti si solleva da una parte all’altra di un ‘cupo liquido formicaio e la totale mancanza di rispetto in quell’arena a forma di enorme imbuto per la prima volta fa ammettere loro che ci vorrebbero proprio i carabinieri a mettere ordine.

Qui ci vuole un battaglione di carabinieri pensarono i due: per la prima volta nella loro vita ammettendo che i carabinieri potevano servire a qualcosa.

Incredibile è l’Italia la cui verità si trova in fondo ad un pozzo.

Per lei – vedo – la bellezza non ha niente a che fare con la verità’

La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.

Ma la giustizia è un’altra cosa.

Era il 1960. E lo scenario non è cambiato se ormai si sono radicate nell’indole dell’italiano certe attitudini all’insulto e certe insane mafiose abitudini ma ancora di più mi preoccupa Il giorno della civetta, quanto oggi tutto sia così naturale e sfacciato, e così smarrito sia anche il comune senso del pudore.

Mi guardo intorno e non riesco più a trovare giornalismo, etica e politica.


Sento solo quaquaraquà.


Un insulso chiacchiericcio e volgari schiamazzi.


Ma che amarezza.
Ma che nostalgia.

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