Divergent – dopo Hunger Games la distopia di Veronica Roth

imagesT6E0V0FA


Nelle sale cinematografiche italiane è arrivato Divergent (qui c’è il trailer), di Neil Burger, il primo film tratto dall’omonima trilogia di Veronica Roth, che ha destato la curiosità di tutti quelli che si sono appassionati al ‘fenomeno’ Hunger Games, ai film di Gary Ross e Francis Lawrence tratti dai primi due romanzi di Suzanne Collins, a cui seguiranno due nuovi episodi a novembre 2014 e 2015, ricavati dal terzo e ultimo libro.

Il confronto pare inevitabile, a soli quattro mesi di distanza, non fosse altro per l’analogia del soggetto distopico destinato ad un pubblico young adult che ha come protagoniste due giovanissime intrepide eroine. Analoga l’operazione commerciale e mediatica che mira anche al rilancio dei libri, i più pubblicizzati al momento su tutti i siti di lettura e non solo.

La critica statunitense ha espresso in maniera quasi unanime la sua preferenza per Hunger Games, in alcuni casi liquidando Divergent, che risulta penalizzato per la semplice ragione di nascere alla sua ombra.

È vero che il film di Burger risente dell’atmosfera di quello di Lawrence, così come il libro della Roth ne risulta in parte ispirato. E il fatto che il film sia uscito quasi a ridosso di Hunger Games per cavalcarne l’onda del successo è un’operazione di marketing difficile da biasimare e che ad ogni modo continuerà a sfruttarne la visibilità visto che sempre a pochi mesi di distanza dai prossimi episodi di Hunger Games sono previste le uscite anche dei successivi capitoli di Divergent.

Tra l’altro è proprio di questi giorni l’annuncio che il terzo e ultimo libro della Roth, Allegiant sarà prodotto in due film proprio come Mockingjay, l’ultimo capitolo di Hunger Games.

Ma senza forzare un confronto che risulterebbe un po’ fine a se stesso e ammettendo le scontate analogie, dovute più che altro al genere distopico, è interessante valutare, come già osservato per Hunger Games, quanto ci sia di buono in questo genere di film e di libri per un universo giovanile e non solo. E la storia presenta anche qui degli elementi di valore se si va a guardare oltre la superficie di un prodotto ben confezionato.

Parliamo quindi innanzitutto del libro.

Divergent è dunque il primo capitolo della trilogia scritta dalla giovanissima Veronica Roth, autrice statunitense, a soli 23 anni, pubblicato nel 2011 negli Stati Uniti dove ha venduto milioni di copie, e nel marzo 2012 in Italia da De Agostini.

Beatrice Prior ha sedici anni e non si conosce. Ma non come tutti gli adolescenti. A lei è permesso guardarsi nello specchio di casa solo una volta ogni tre mesi, quando la madre le taglia i capelli.

Lo specchio è il primo oggetto che incontriamo in questa storia, e Beatrice osserva un riflesso che le è estraneo, e ogni volta che si scorge nei palazzi di vetro e acciaio della sua città non si riconosce. Fugge anche gli sguardi per non vedersi e per non essere vista, e anche quando si cerca nel riflesso del suo orologio da polso, l’unico ornamento consentito agli Abneganti, Beatrice sa che deve ancora trovarsi.

Fino a quando non diventerà Tris, una Divergente.

‘Guardarmi ora non è come vedermi per la prima volta, è come vedere qualcun altro per la prima volta. Beatrice era una ragazza che intravedevo nello specchio in momenti rubati, che stava in silenzio a tavola durante la cena. Questa è una persona i cui occhi attirano i miei e non li lasciano più andare. Questa è Tris’.

Un romanzo distopico ambientato in un futuro prossimo nella Chicago in cui oggi vive l’autrice ma che nel libro ha saputo ritrovare la pace dopo una lunga guerra, costruendo una società ordinata i cui abitanti sono divisi in fazioni secondo la propria indole dominante, coraggiosa, altruista, gentile, onesta o sapiente.

Il giorno della scelta, compiuti i sedici anni, i giovani sono chiamati a indicare la fazione nella quale vorrebbero trascorrere il resto della loro vita, che può corrispondere o meno a quella d’origine. I cosiddetti transfazione, scegliendo una nuova fazione sono costretti a lasciarsi alle spalle il passato e a dire addio ai propri familiari.

Tutti i ragazzi sono sottoposti ad un test psicoattitudinale, il cui risultato può guidarli nella propria scelta che resta comunque libera.

È una società utopica che rispetta e asseconda la natura dei propri abitanti o una tirannia che esercita una forma di controllo velata da una apparente libertà? In quella che potrebbe sembrare quasi una società perfetta, tutto funziona perché tutti sanno qual è il loro posto.

Tutti tranne i Divergenti.

Per alcuni soggetti il risultato del test è inconcludente. Non è possibile collocarli all’interno di una delle cinque fazioni, non sono né Abneganti né Candidi, né Intrepidi, Eruditi o Pacifici, o sono più ‘qualità’ insieme. Sono più forti mentalmente, non si lasciano condizionare e sviluppano forme autonome e imprevedibili di pensiero.

Per lo stato rappresentano una minaccia.

‘Ogni fazione condiziona i suoi membri a pensare e a agire in un certo modo. La maggior parte della persone si adegua. Per loro non è difficile imparare, acquisire uno schema di pensiero che funziona e attenersi a quello per sempre… noi [Divergenti] non possiamo essere confinati in un solo modo di pensare, e questo terrorizza chi detiene il comando. Significa che non possiamo essere controllati. Significa che qualunque cosa facciano, noi creeremo sempre problemi’.

Le tradizioni delle fazioni guidano i comportamenti dei membri sostituendosi ai gusti personali, e ogni fazione ha le sue regole da rispettare. La prima legge universale è ‘la fazione prima del sangue’, l’individualità deve essere sacrificata in nome del bene comune e l’unico modo per conservare la pace è soggiogare il popolo.

‘La pace è controllo. Questa è la libertà’.

Nella società distopica immaginata da Veronica Roth la vita è fatta di obblighi, o in alternativa si può scegliere di vivere da Esclusi, come quelli che sono stati cacciati dalla società perché non sono riusciti a completare l’iniziazione della fazione che hanno scelto, e che vivono soli, emarginati, separati dalla comunità, senza uno scopo e una ragione.

Beatrice sa di non appartenere alla fazione in cui è nata, quella degli Abneganti. Guarda come una straniera la vita della sua famiglia, la ammira ma non la sente propria. Non riesce ad adeguarsi alle sue regole, che sembrano anche più restrittive e severe di quelle delle altre fazioni tanto da ricordare i precetti della fede cristiana (evocata anche dal rituale della lavanda dei piedi degli iniziati, dalla cena condivisa e servita, dal battesimo con cui da bambina la sua vita è stata offerta a Dio).

Beatrice guarda agli Intrepidi che sembrano giovani, affascinanti teppisti, vestono di nero, hanno piercing e tatuaggi, sono rumorosi, gridano e giocano a carte, mentre gli Abneganti sono silenziosi e devono dimenticarsi di se stessi, una massa indistinta vestita di grigio che si muove con ritmo uniforme come assorbita da una mente collettiva sempre proiettata verso l’esterno.

La scelta degli Intrepidi da parte di Beatrice risulta la più immediata per adolescenziale spirito di emulazione, non solo perché ne subisce il fascino, ma perché sente di essere già come loro, sente in lei una parte troppo importante di sé che gli Abneganti le avevano sempre chiesto di nascondere.

Beatrice soffre il distacco dalla sua famiglia che ama profondamente, ma non può rinunciare a se stessa. Decide di lasciarla e andare incontro all’ignoto, ma per ogni membro della famiglia da cui ha dovuto separarsi, un uccello in volo verso il suo cuore è tatuato sulla sua pelle.

Per essere accettata dalla nuova fazione Tris, scontrandosi con gli altri iniziati, dovrà affrontare una serie di prove simili ai livelli da superare in un videogame, fino a quelli che potremmo chiamare ‘Brain Games’, delle terribili sfide virtuali realizzate a partire dalle fobie stimolate chimicamente nei partecipanti, che saranno per lei un momento di confronto, di crescita oltre che di scoperta dell’amicizia e dell’amore.

L’invenzione della Roth che segna il suo universo distopico, è l’idea del controllo della mente ottenuto chimicamente, che sarà usato anche come sistema di manipolazione per formare un esercito di soldati incoscienti comandati a distanza dai malvagi Eruditi che, convinti di essere nel giusto perché più colti degli altri, vogliono conquistare il potere.

La Roth fa l’errore, che si può concedere comunque all’inesperienza (è pur sempre il primo romanzo di una giovane ventitreenne), di trattare in modo troppo elementare e schematico le idee di fondo che sono interessanti. Alcuni ragionamenti di Beatrice sono un po’ forzati e contraddittori e le sue emozioni non così bene indagate come avrebbero dovuto essere, anche nei momenti tragici non è esplorato abbastanza l’animo della protagonista e le sue reazioni sono o troppo scontate o troppo superficiali.

Per fare un riferimento ad Hunger Games, anche i romanzi della Collins hanno delle lacune e qualche volta risolvono in modo frettoloso alcune situazioni, ma sanno emozionare. La più grande differenza tra le due protagoniste dei romanzi è che Beatrice non ha il senso di umanità di Katniss che pur tra mille dubbi e paure si preoccupava soprattutto di proteggere gli altri, mentre Beatrix dall’inizio alla fine della storia cerca solo se stessa.

Non è certo un crimine non essere poi così altruisti o in alcune situazioni esserlo più di quanto ci si aspetti, fa parte dell’essere umani, e la bellezza e l’utilità di questa storia è nel percorso di crescita della protagonista che trova la forza di diventare adulta e di essere se stessa, affrontando le sue paure e scoprendo il valore della sua unicità.

Resta il peso di una tendenza moraleggiante che somiglia molto ad una forma di bigottismo religioso di cui al momento Tris non è ancora riuscita a liberarsi del tutto, ma confidiamo nei prossimi capitoli.

Il valore di una storia arrivata al cinema: il film La ragazza di fuoco

hunger-games---la-ragazza-di-fuoco_288[1]Dopo lo straordinario successo al cinema di Hunger Games: Catching Fire negli Stati Uniti, La ragazza di fuoco ha scatenato anche in Italia un caso mediatico e in molti hanno subito pensato di trovarsi dinanzi allo sfruttamento commerciale di una saga come tante altre.

È fin troppo facile schierarsi contro quella che può apparire l’ennesima storia creata appositamente per un universo giovane e facile all’idolatria. Ma anche se così fosse, gli Hunger Games, i film come i libri, hanno un proprio valore e dovrebbero farci riflettere su quelle semplici ma fertili idee che possono trasmettere ai giovani e non solo.

La guerra vissuta con gli occhi di una ragazza che non ne capisce il senso, la forza d’animo che i protagonisti sanno trovare pur tra tanti dubbi e paure, il coraggio di combattere contro un potere crudele e totalitario, la lealtà, la fiducia e l’amore che lega chi ha deciso di schierarsi contro quel potere, l’aiuto reciproco che sanno darsi, la sincerità dei sentimenti, la fratellanza che riunisce un popolo oppresso, dovrebbero aiutarci a ritrovare anche un po’ della nostra umanità. E chi dice che una storia per ragazzi non possa emozionare anche un pubblico adulto? Avere un profondo valore, o persino qualcosa di vagamente somigliante ad un’etica?

La trilogia di Suzanne Collins non ha nulla di morboso ed è certo più impegnata dei libri per ragazzi che hanno avuto molta fortuna al cinema negli ultimi anni. L’autrice non biasima soltanto la società dello spettacolo di un futuro neanche poi tanto remoto, che esercita controllo e potere su un popolo sottomesso da una combinazione di forze armate e videocrazia, ma soprattutto sottrae ogni alibi e pretesa innocenza alla nostra identità di spettatori e finiamo per sentirci in qualche modo compartecipi, direttamente chiamati in causa.

Come il primo, anche il secondo film, La ragazza di fuoco, non è certo un capolavoro, ma per i temi trattati, vale certamente la pena vederlo, così come vale la pena leggere il libro. Tra l’altro se un film che dura quasi due ore e mezzo dà la sensazione che ne siano trascorsi molti di meno, sicuramente è ben raccontato, soprattutto quando, nonostante le imperfezioni, vorremmo che continuasse ancora. Il talento di Suzanne Collins che prima di scrivere Hunger Games è stata anche sceneggiatrice per il cinema si vede meglio in questo secondo film che è più strutturato del primo.

Rispettoso del libro, La ragazza di fuoco è un buon capitolo di passaggio costruito per essere ‘una parte’, arricchisce la storia, costruisce le basi e crea attesa per i successivi episodi che saranno al cinema a novembre 2014 e 2015, e se non è semplicissimo ricostruire l’accaduto per chi non ha visto il primo film o letto il libro, il problema è facilmente risolvibile, e resta tale soltanto per chi è interessato a Catching Fire e non a Hunger Games.

Francis Lawrence, subentrato a Gary Ross nella regia, riesce a dare più forza emotiva al film prestando maggiore attenzione alla storia, alle relazioni tra i protagonisti, ai dialoghi che ci consentono di approfondire le caratteristiche psicologiche dei personaggi che sono cresciuti nei loro ruoli e sono più saldi. Il film diventa così più appassionante e coinvolgente per la sua maggiore complessità e potenza narrativa, visiva ed emotiva. Katniss si sta trasformando in un’eroina più consapevole ed è più profondamente reale. I molti primi piani della protagonista Jennifer Lawrence enfatizzano tutte le emozioni impresse sul suo volto e nei suoi occhi. Anche Josh Hutcherson e Liam Hemsworth (rispettivamente nei ruoli di Peeta e Gale) migliorano, e splendide sono le interpretazioni di Jena Malone e Sam Caflin, due nuovi affascinanti tributi.

Anche Woody Harrelson (il prezioso mentore Haymich), Elizabeth Banks (la straordinaria Effie), Lenny Kravitz (l’amato stilista Cinna), Stanley Tucci (il raggiante Caesar Flickerman, presentatore televisivo dei giochi) e Donald Sutherland (il terribile presidente Snow), sono più convincenti.

Il modo in cui Effie acquisisce consapevolezza che Katniss e Peeta le saranno strappati via è davvero straziante. La scelta del presidente Snow di mandare agli Hunger Games i vincitori delle precedenti edizioni dei giochi allo scopo di uccidere nei distretti anche la speranza di cui i vincitori sono l’incarnazione, si rivela una mossa sbagliata per Capitol City perché a differenza dei soliti tributi sconosciuti al pubblico e considerati delle semplici pedine in gioco, i vincitori sono a loro familiari, vi sono affezionati e l’effetto dei giochi finisce per essere doloroso anche nella capitale come lo è nei distretti che non avrebbero mai voluto vedere morire delle persone care. Gli Hunger Games diventano per tutti una tragedia e la rivolta dilaga… ma questo ci sarà raccontato nei prossimi episodi.

Le musiche, esclusivamente strumentali, scelta comune ai due film, ottenute dalla collaborazione tra i Coldplay e James Newton Howard, riescono ad aggiungere drammaticità alle immagini e ad arricchire la forza visiva del film.

Una perdita rispetto al primo film è nella vividezza delle immagini. Un’opacità e una nebbia che in alcuni momenti somiglia quasi ad una sfocatura, non disegna bene la profondità dei paesaggi che appaiono meno nitidi e brillanti, né gli oggetti in primo piano di cui si perde il dettaglio. L’arena, così come la palestra in cui si allenano i tributi, fanno un brusco passo indietro in quanto a progresso tecnologico, come in un vecchio videogames, e ne risentono anche gli effetti speciali che erano più accurati nel primo film e più futuristici.

Manca la luce fredda e un po’ metallica del film di Gary Ross che accentuava il contrasto cromatico tra la sfavillante Capitol City, sfarzosa capitale nello stile Antico Impero di Las Vegas, dagli eccentrici abitanti così riccamente abbigliati e vistosamente truccati, e i toni quasi monocromi e terrosi dei distretti di Panem. Le tinte sottotono, più calde e un po’ invecchiate del film di Lawrence segnano un passaggio dalla fantascienza alla realtà, dal futuro remoto del XXI secolo al seicentesco naturalismo barocco, che su un piano estetico è la differenza più lampante tra i due film, ed è solo una questione di gusti.

Molte le scene ben riuscite, come quella del treno che attraversa i distretti per il tour della vittoria e i ragazzi scoprono sui muri graffiti con il simbolo della ghiandaia imitatrice, primo segno che la rivolta è nell’aria; o quella in cui Katniss e Peeta parlano con sincera commozione alle famiglie dei tributi morti del distretto 11 che emoziona più del libro. Durante la festa dei vincitori a Capitol City, il presidente Snow guarda Katniss scuotendo la testa in segno di disapprovazione e il calice del brindisi si tinge dei riflessi rossi dei fuochi d’artificio, inquietante anticipazione dello spargimento di sangue che seguirà non soltanto gli Hunger Games.

La ragazza di fuoco

UK-Cover-Catching-FireIl secondo film della saga Hunger GamesLa Ragazza di Fuoco diretto da Francis Lawrence e arrivato anche nei cinema italiani, è più promettente del primo. Negli USA si registrano incassi da record che superano la saga di Twilight.

Il libro, che in vista dell’uscita del film è stato ristampato in 50 milioni di copie solo in America dà più spazio all’analisi delle conseguenze politiche e sociali degli Hunger Games e all’inquietudine dei protagonisti.

Katniss Everdeen è La ragazza di fuoco. La settantaquattresima edizione degli Hunger Games si è conclusa ed è ancora viva. Vorrebbe sentirsi al sicuro, rimuovere completamente dalla memoria il ricordo di quell’orrore e fingere che sia stato solo un brutto sogno. Ha smarrito il senso di sicurezza che aveva costruito, seppure a fatica tra tanti stenti e timori, nel suo vecchio mondo in cui sapeva riconoscere il suo posto nella vita. Vorrebbe sentirsi libera ma le torture fisiche e psicologiche subite la rendono preda di incubi e visioni.

L’universo distopico del primo libro degli Hunger Games è ricreato da Suzanne Collins nel nuovo capitolo La ragazza di fuoco, insinuando in uno scenario relativamente sereno le nuove paure di Katniss, l’opprimente senso di minaccia e di vendetta che incombe su di lei e la sua famiglia che unito alla crescente oppressione governativa e alle condizioni ancora più precarie in cui versano i distretti hanno un forte impatto emotivo.

Katniss non è un’eroina, è una ragazza spaventata di diciassette anni, insicura, asociale, a volte anche egoista, che non rispetta le regole e che ha vinto i sadici Hunger Games grazie al suo istinto di sopravvivenza. Ma lo ha fatto sfidando pubblicamente Capitol City, minandone l’autorità e questo fa di lei una ribelle anche se le sue azioni sono state dettate dal semplice desiderio di restare viva e tenere in vita Peeta.

Eppure Katniss è una combattente. È ribelle in modo istintivo e quasi sempre inconsapevole, lascia trapelare le sue emozioni che scatenano la reazione dei distretti. Durante il Tour della Vittoria, nel distretto undici ricorda con sincera commozione Rue, l’indifesa ragazzina che ha cercato di proteggere nell’arena ma che è morta ai suoi piedi: “Rue … sarà sempre nel mio cuore. Ogni cosa bella me la richiama alla mente. La vedo nei fiori gialli che crescono nel prato vicino a casa mia. La vedo nelle ghiandaie imitatrici che cantano sugli alberi. E soprattutto la vedo in Prim, mia sorella. … Grazie per i vostri figli. … Poi, da qualche parte in mezzo al pubblico, qualcuno fischia il motivetto a quattro note con cui Rue riproduceva il canto della ghiandaia imitatrice. … Ogni singolo spettatore si preme sulle labbra le tre dita di mezzo della mano sinistra e le tende verso di me. È qualcosa che si fa nel Distretto 12, è l’ultimo saluto che io ho rivolto a Rue nell’arena”.

Il senso ritrovato della vita che si racchiude nelle parole di Katniss infonde determinazione alla gente di Panem: “tu non hai fatto del male alle persone… hai dato loro un’occasione. Devono solo avere abbastanza coraggio per coglierla”.

La dignità e la bellezza, il valore prezioso di ogni singola vita umana è ciò che Katniss sa riconoscere senza neanche rendersene conto… è la ragazza di fuoco… la fiamma più rivoluzionaria che può animare l’umanità.

Nei distretti l’esultanza della gente si unisce alla collera, al grido di vendetta. Le folle turbolente non arretrano più contro l’esercito dei Pacificatori che cerca di arrestarle anche sparando a caso, non hanno più “quell’aria da bestiame rassegnato”, sono inferocite e sventolano stendardi col volto di Katniss, la ghiandaia imitatrice diventata simbolo della rivolta, e “nulla potrà invertire il corso degli eventi”. La ragazza di fuoco ha acceso una scintilla, la fiamma è divampata e non è più possibile spegnerla, l’incendio della rivolta ormai attraversa i distretti.

Neppure la nuova edizione dei giochi, quella della memoria, commemorativa dei giochi stessi, ancor più sadica della precedente e raccontata da Suzanne Collins con uno stile scarno, diretto e spietato nella descrizione delle uccisioni di una violenza che lascia senza fiato perché appare quasi naturale, riuscirà nel suo scopo. L’ultima mossa di Capitol City, architettata strategicamente per liberarsi della giovane eroina finisce per rivelare più chiaramente tutta l’ingiustizia, la barbarie e la crudeltà di Capitol City e degli Hunger Games. Ciò che hanno subito gli abitanti di Panem è “così sbagliato, così ingiustificabile, così malvagio da non lasciare altra scelta” che combattere ma solo lo sguardo inorridito di una ragazza è riuscito a far luce su chi sia il vero nemico.

Il nemico dell’umanità che vorrebbe uccidere anche la speranza, dimostrare che anche quella è un’illusione, come i sogni per cui vale la pena non arrendersi mai.

Uno spaventoso reality

Hunger-Games-Classic-2
Il primo film della saga di Hunger Games diretto da Gary Ross (2012) non è perfetto, ma ha delle scene emozionanti e molti aspetti positivi. Il trailer de La Ragazza di Fuoco, trasposizione del secondo capitolo della trilogia, appena distribuito in tutto il mondo ha già entusiasmato gli spettatori che hanno avuto modo di vederlo.

Ma parliamo del primo libro, che non puoi non aver letto.

Cosa si prova quando la vita si riduce a mera lotta per la sopravvivenza, quando si è costretti ad accaparrarsi il cibo cacciando illegalmente nei boschi come animali selvatici, quando l’umanità è resa schiava e omologata dal lavoro in miniera, quando un sorteggio decide chi entrerà in gioco e la sola scelta possibile sarà uccidere o morire?

È così che Suzanne Collins riesce a turbarci introducendoci nella distopia post apocalittica di Panem.
“La nazione risorta dalle ceneri di un luogo un tempo chiamato Nord America”, ma la triste realtà in cui ci imbattiamo nelle prime pagine non è neanche una pallida anteprima degli Hunger Games, i ‘giochi della fame’, uno spaventoso reality offerto ai voraci spettatori di Capitol City e agli abitanti di Panem che sono obbligati ad assistere allo spettacolo della morte delle persone a loro care, e che per di più si presenta come una festa, un evento sportivo, come un reality show qualunque.
Ventiquattro tributi, dodici ragazzi e dodici ragazze di età compresa tra i dodici e i diciotto anni, due per ciascun distretto sottomesso a Capitol City, sono costretti a combattere l’uno contro l’altro fino alla morte di tutti gli avversari in una arena tecnologicamente avanzata ma dalla classica ispirazione. Assassinii di una spietata brutalità si susseguono feroci e la lotta all’ultimo sangue porterà ad un solo vincitore.

Questo è quello che accade nella norma, quello che è accaduto nelle precedenti settantatré edizioni dei giochi. Ma quest’anno dal distretto dodici arrivano Katniss e Peeta, decisi lei a restare viva per amore della sorellina Prim, e lui a lasciare un segno di ribellione e a dimostrare a Capitol City tutta la mostruosità di quel gioco crudele. La loro alleanza, sciolta e ricomposta più volte, dà un senso nuovo alla sfida nell’arena. La fiducia, la solidarietà e l’amore entrano in gioco per la prima volta e il pubblico è in delirio.

La ribellione è nell’aria, fin dal momento in cui Katniss si offre volontaria sostituendo Prim che era stata sorteggiata come tributo. Il pubblico si rifiuta di applaudire restando in silenzio: “la più audace forma di disapprovazione di cui possono disporre. Il silenzio. Che dice che non siamo d’accordo. Che non perdoniamo. Che tutto questo è sbagliato”.

Katniss sa di essere il miglior cacciatore di tutta Panem e sa anche che: “la cosa più spaventosa è che se riesco a dimenticare che si tratta di persone, non ci sarà proprio alcuna differenza” e non può far altro che combattere per rimanere in vita, anche contro le persone che ama, anche contro Peeta.

L’odio, l’orrore, il disgusto e l’incredulità per le crudeltà gratuite cui sono sottoposti i protagonisti degli Hunger Games non possono non assalire anche il lettore che, in preda ad una forma di dipendenza tipica dei videogames, comincia a chiedersi ostinatamente come andrà a finire quell’orrenda pazzia. Leggere Hunger Games fa male, proprio come essere incessantemente tormentati dalle inesauribili difficoltà e imprevisti che si abbattono su quei piccoli protagonisti. La semplicità e l’accuratezza dei particolari descritti in maniera tale che le azioni risultino visibili come in un film, il senso di realtà che sopravvive al genere fantascientifico, rendono tutto più doloroso e l’insensatezza paralizzante della ‘banalità del male’ ci terrorizzano al punto da domandarci che fine abbia fatto l’umanità in quello scenario bestiale.

È allora che Suzanne Collins ci ricorda di non perdere la speranza aiutandoci con alcuni momenti di una umanità commuovente come quando Katniss assiste alla morte di Rue, un altro tributo, una nemica eppure un’indifesa ragazzina che le ricorda tanto sua sorella Prim. Così le tiene la mano e canta per lei, le inghirlanda il viso, ricopre di fiori colorati le sue orrende ferite e le ghiandaie imitatrici fanno riecheggiare il bosco del suo canto.

Quel canto che ribadisce che in fondo l’umanità non è morta, che il senso della vita è un altro, che nessuna tirannia può uccidere la purezza dell’animo umano, il nostro spirito, e quei sogni per cui vale la pena vivere.