Il primo film della saga di Hunger Games diretto da Gary Ross (2012) non è perfetto, ma ha delle scene emozionanti e molti aspetti positivi. Il trailer de La Ragazza di Fuoco, trasposizione del secondo capitolo della trilogia, appena distribuito in tutto il mondo ha già entusiasmato gli spettatori che hanno avuto modo di vederlo.
Ma parliamo del primo libro, che non puoi non aver letto.
Cosa si prova quando la vita si riduce a mera lotta per la sopravvivenza, quando si è costretti ad accaparrarsi il cibo cacciando illegalmente nei boschi come animali selvatici, quando l’umanità è resa schiava e omologata dal lavoro in miniera, quando un sorteggio decide chi entrerà in gioco e la sola scelta possibile sarà uccidere o morire?
È così che Suzanne Collins riesce a turbarci introducendoci nella distopia post apocalittica di Panem.
“La nazione risorta dalle ceneri di un luogo un tempo chiamato Nord America”, ma la triste realtà in cui ci imbattiamo nelle prime pagine non è neanche una pallida anteprima degli Hunger Games, i ‘giochi della fame’, uno spaventoso reality offerto ai voraci spettatori di Capitol City e agli abitanti di Panem che sono obbligati ad assistere allo spettacolo della morte delle persone a loro care, e che per di più si presenta come una festa, un evento sportivo, come un reality show qualunque.
Ventiquattro tributi, dodici ragazzi e dodici ragazze di età compresa tra i dodici e i diciotto anni, due per ciascun distretto sottomesso a Capitol City, sono costretti a combattere l’uno contro l’altro fino alla morte di tutti gli avversari in una arena tecnologicamente avanzata ma dalla classica ispirazione. Assassinii di una spietata brutalità si susseguono feroci e la lotta all’ultimo sangue porterà ad un solo vincitore.
Questo è quello che accade nella norma, quello che è accaduto nelle precedenti settantatré edizioni dei giochi. Ma quest’anno dal distretto dodici arrivano Katniss e Peeta, decisi lei a restare viva per amore della sorellina Prim, e lui a lasciare un segno di ribellione e a dimostrare a Capitol City tutta la mostruosità di quel gioco crudele. La loro alleanza, sciolta e ricomposta più volte, dà un senso nuovo alla sfida nell’arena. La fiducia, la solidarietà e l’amore entrano in gioco per la prima volta e il pubblico è in delirio.
La ribellione è nell’aria, fin dal momento in cui Katniss si offre volontaria sostituendo Prim che era stata sorteggiata come tributo. Il pubblico si rifiuta di applaudire restando in silenzio: “la più audace forma di disapprovazione di cui possono disporre. Il silenzio. Che dice che non siamo d’accordo. Che non perdoniamo. Che tutto questo è sbagliato”.
Katniss sa di essere il miglior cacciatore di tutta Panem e sa anche che: “la cosa più spaventosa è che se riesco a dimenticare che si tratta di persone, non ci sarà proprio alcuna differenza” e non può far altro che combattere per rimanere in vita, anche contro le persone che ama, anche contro Peeta.
L’odio, l’orrore, il disgusto e l’incredulità per le crudeltà gratuite cui sono sottoposti i protagonisti degli Hunger Games non possono non assalire anche il lettore che, in preda ad una forma di dipendenza tipica dei videogames, comincia a chiedersi ostinatamente come andrà a finire quell’orrenda pazzia. Leggere Hunger Games fa male, proprio come essere incessantemente tormentati dalle inesauribili difficoltà e imprevisti che si abbattono su quei piccoli protagonisti. La semplicità e l’accuratezza dei particolari descritti in maniera tale che le azioni risultino visibili come in un film, il senso di realtà che sopravvive al genere fantascientifico, rendono tutto più doloroso e l’insensatezza paralizzante della ‘banalità del male’ ci terrorizzano al punto da domandarci che fine abbia fatto l’umanità in quello scenario bestiale.
È allora che Suzanne Collins ci ricorda di non perdere la speranza aiutandoci con alcuni momenti di una umanità commuovente come quando Katniss assiste alla morte di Rue, un altro tributo, una nemica eppure un’indifesa ragazzina che le ricorda tanto sua sorella Prim. Così le tiene la mano e canta per lei, le inghirlanda il viso, ricopre di fiori colorati le sue orrende ferite e le ghiandaie imitatrici fanno riecheggiare il bosco del suo canto.
Quel canto che ribadisce che in fondo l’umanità non è morta, che il senso della vita è un altro, che nessuna tirannia può uccidere la purezza dell’animo umano, il nostro spirito, e quei sogni per cui vale la pena vivere.