Il giorno della civetta – Leonardo Sciascia

Il giorno della civetta Leonardo Sciascia

Non avevo mai letto Sciascia, lo confesso. Neanche alle scuole medie, cui ‘il maestro’ aveva destinato Il giorno della civetta, il racconto che ho appena finito di leggere.

Ho cominciato da qui, e ho intenzione di continuare. Forse perché in questa Italia futile e corrotta ho bisogno di serietà, impegno, rispetto, semplicità e umanità.

Ho bisogno di poesia e di verità, di bella scrittura e di condividere una malinconica, lucida visione.

La serena consapevolezza che ogni sfida richiede coraggio, prudenza, pazienza.

E non si tratta di essere eroi.

Nel paese siracusano di S. il capitano Bellodi indaga con intuito da segugio su un omicidio a cui ne faranno seguito altri.

Barruggieddu – bargello ‘un cane della legge […] col mio breve raggio di corda, col mio collare, col mio furore’.

Il giorno della civetta ha inizio con un uomo ammazzato alla luce del sole mentre insegue la corriera sotto gli occhi dei passeggeri già a bordo e di un venditore di panelle, e – naturalmente – nessuno ha visto niente.

Il capitano si districa abilmente tra gli interrogatori della gente del paese che non sa nulla e non ricorda niente, di ‘confidenti’-informatori e indiziati, tra lettere anonime e soffiate, arrivando a scoprire la verità grazie alla sua comprensione dell’animo umano piuttosto che agli sparuti indizi raccolti.

Non mi ricordo … sull’anima di mia madre non mi ricordo, mi pare che sto sognando.
Ti sveglio io ti sveglio’ – s’infuriò il maresciallo.
Perché – domandò il panellaro, meravigliato e curioso – hanno sparato?. Con una prontezza e un umorismo tutto meridionale.

E Sciascia non è solo un narratore di storie.


Descrive silenzi, dipinge anime con sottili tocchi di luce.


Nera semenza della scrittura, spietata inquisizione di parole poeticamente calibrate che scolpiscono un’umanità viva, una Sicilia stanca, di tela bianca, di uova e di carbone che odora di trigonella e di legna bruciata e se ne sta in disparte, nascosta nell’ombra di fascisti e partigiani.


E quelli del continente sono già affascinati dalla sua impenetrabilità e Roma laccata d’oro e di grande bellezza manovra a distanza le sorti del paese.

Era il 1960 e non si parlava ancora di mafia, si diceva…. ‘è una fantasia’ e il Governo esplicitamente la negava, mentre oggi mi torna in mente la chiacchierata di qualche anno fa in Grecia con un perfetto sconosciuto che mi dice che l’Italia è mafia – ma non come la mia Napoli è pizza, mandolino e Pulcinella (e Gomorra) agli occhi di uno straniero.


Mi spiega: ‘in Italia la politica è mafia, tutto il paese è mafia, è corruzione, e non esiste una giustizia sociale, una meritocrazia, una legge che tuteli chi non ha gli amici giusti’.


Cosa posso rispondergli?


Lo shakespeariano uccello notturno non si muove più nell’ombra ma alla luce del sole.


È Il giorno della civetta.

Ripenso a Sciascia che nella nota al testo spiega che ha impiegato un anno a ‘cavare’, a limare il suo racconto per non urtare la suscettibilità di qualcuno, incappare in ‘imputazioni di oltraggio e vilipendio’ e poter conservare la libertà (che in questo paese non è mai piena libertà), di scrivere, documentare, denunciare, ‘insegnare’, scegliendo il racconto piuttosto che il saggio o l’inchiesta per raggiungere il più vasto pubblico.

Perché in Italia, si sa, non si può scherzare né coi santi, né coi fanti: e figuriamoci se, invece che scherzare, si vuol fare sul serio.

Il capitano Bellodi è già Giovanni Falcone, è tutti gli eroi antimafia che l’Italia ha conosciuto.


Profetico il racconto. Ne Il giorno della civetta il capitano è penosamente scettico sull’antimafia mentre scopre di non poter fare a meno di combattere la mafia e si chiede se non abbia già varcato la soglia ‘di una vuota oscura cripta’.

Mi ci romperò la testa è la solenne ammissione.

Due torvi figuri nei loro scuri cappotti venuti dalla Sicilia – ‘sono un pezzo di questione meridionale’ – invitati ad assistere a una seduta parlamentare sono increduli.

La luce era quella che al loro paese annunciava certi temporali: quando le nuvole, spinte dal vento del Sahara, raccogliendosi in un lento ribollire, filtravano luce di sabbia e d’acqua; una curiosa luce, che dava alle cose una superficie di raso.

Una raffica di insulti si solleva da una parte all’altra di un ‘cupo liquido formicaio e la totale mancanza di rispetto in quell’arena a forma di enorme imbuto per la prima volta fa ammettere loro che ci vorrebbero proprio i carabinieri a mettere ordine.

Qui ci vuole un battaglione di carabinieri pensarono i due: per la prima volta nella loro vita ammettendo che i carabinieri potevano servire a qualcosa.

Incredibile è l’Italia la cui verità si trova in fondo ad un pozzo.

Per lei – vedo – la bellezza non ha niente a che fare con la verità’

La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.

Ma la giustizia è un’altra cosa.

Era il 1960. E lo scenario non è cambiato se ormai si sono radicate nell’indole dell’italiano certe attitudini all’insulto e certe insane mafiose abitudini ma ancora di più mi preoccupa Il giorno della civetta, quanto oggi tutto sia così naturale e sfacciato, e così smarrito sia anche il comune senso del pudore.

Mi guardo intorno e non riesco più a trovare giornalismo, etica e politica.


Sento solo quaquaraquà.


Un insulso chiacchiericcio e volgari schiamazzi.


Ma che amarezza.
Ma che nostalgia.

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Nottetempo – Luca Russo

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Nel tempo sospeso di una notte le luci del tramonto e le ombre invadono l’anima.

Tavole poeticamente dipinte sono il riflesso dell’inquietudine di un artista smarrito che cerca di ritrovare disperatamente se stesso e la sua ispirazione rimasta nascosta su un’isola, sul finire di un’estate ormai lontana.

Una perdita dolorosa e il tormento dei dubbi e dei fantasmi non lo lasciano andare.

Sarebbe più semplice morire o impazzire ma nel buio dell’assenza, nell’impossibilità di sfuggire a se stessi e alla paura, pagine nere si spezzano in frammenti.

L’artista va incontro alla realtà attraverso il sogno. Il romanzo si fa introspezione.

Le ambientazioni oniriche inquadrate cinematograficamente che il protagonista ripercorre alla ricerca di sé sono ricoperte di nebbia, fatte di pennellate quasi sciolte nell’olio.

Nottetempo, la graphic novel edita da Tunuè – romanzo emozionale – di Luca Russo, artista alla continua ricerca della propria strada espressiva e che per la prima volta lavora ad un’opera interamente realizzata con la tecnica della pittura digitale, raggiunge il potente risultato di una galleria di dipinti ad olio dal grande segno pittorico che prende vita con la stessa forza della commistione di sogno e realtà della storia.

Il viaggio nella memoria insieme a Giulia ha inizio in una deserta Venezia notturna e abitata solo da una bianca luna piena che gioca con gli occhi gialli del male e con i fantasmi del passato.

La forza e il fantasma dell’arte nascoste dalle nuvole.

Gli spartiti lasciati sul pavimento lucido, accartocciati o trascinati via dal vento insieme al protagonista.

La stanza con il pianoforte elegante e spoglia, spiata da un pallido volto.

Le tende rosse di un sipario che si è chiuso sulla creatività, il pianoforte in mezzo a un bosco di alberi spogli dai tronchi che assumono forme femminili tra i quali si intravede la luce di una speranza.

Attraverso un cancello e uno scalone monumentale la voce di Giulia richiama il protagonista tra le sale del Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli, fino al dipinto del Misantropo di Pieter Bruegel, che invano cerca di sfuggire alle crudeltà della vita, per un omaggio ai grandi pittori del passato a cui Luca Russo si è sempre ispirato.

… il mondo è infido…

Lo specchio deformante della tristezza trasforma ogni cosa in un incubo.

Nel mare immenso, la disperazione della solitudine.

Che sale ricoprendo la città.

Un’opera onirica e malinconica, un viaggio solitario che anima ogni nota di colore e coinvolge l’intera umanità abbracciando il senso della vita in un ultimo ballo.

Il paradiso degli orchi – Daniel Pennac

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A pochi giorni dall’uscita in Italia de Il caso Malaussène, ultimo romanzo della fortunata saga di Daniel Pennac, un invito, per chi non l’avesse ancora fatto, a recuperare dall’inizio la storia di questo straordinario personaggio.

Il paradiso degli orchi (Au bonheur des ogres, 1985), arrivato in Italia nel 1991, è il primo romanzo di Pennac che ha come protagonista Benjamin Malaussène, un angelo del focolare diafano e coglione diventato capro espiatorio di un mondo alla rovescia che rispecchia la nostra assurda realtà semplicemente impazzita.

Un onesto fratello di famiglia che si prende cura di una combriccola davvero sui generis, diventa l’unico degno testimone di un omicidio programmato, anima santa che si immola accettando persino di fare da bersaglio a un folle bombarolo.

Il Grande Magazzino in cui Malaussène lavora, tempio della fede materialista del commercio nel domani fruttuoso, è profanato da una setta di orchi gaudenti e omicidi, una di quelle proliferate durante la seconda guerra mondiale, seguaci di una mistica dell’istante e che rifiutano codici morali e ideologie.

Malaussène finisce per diventare, suo malgrado, un principio esplicativo, la causa misteriosa ma evidente di qualsiasi evento inspiegabile.

Benjamin è uno di quei personaggi che si amano al primo istante, un poeta della nostra modernità che sa guardare la realtà con una rara capacità d’osservazione e di giudizio.

La sua singolare curiosità e fantasia, il suo malinconico amore per la vita, lo rendono capace di commuoversi (anche a comando) alla vista della luce del giorno che filtra attraverso grappoli multicolori di palloncini che si innalzano sulla folla metropolitana del Grande Magazzino contro la vetrata smerigliata.

Ma Malaussène sa guardare le cose allo stesso tempo con incanto e disincanto, è dotato di esperienza, saggezza, umorismo e di un giusto distacco.

È un uomo dalla straordinaria sensibilità e sensualità, che ascolta la voce femminile che si diffonde dall’altoparlante del Grande Magazzino leggera e piena di promesse come un abito da sposa, che ha una inaspettata relazione con la bellissima zia Julia, oltre che con il suo adorato e puzzolente cane epilettico Julius.

È un uomo che sa vedere il cuore delle persone e amarle per quello che sono, adorandone tutte le diversità, che perde e riacquista l’udito più volte a causa delle esplosioni a cui assiste nel Grande Magazzino, affinando l’attenzione all’ascolto così come allo sguardo.

In una Parigi multietnica popolata di strampalati personaggi tratteggiati appena ma tutti subito perfettamente riconoscibili, di una meravigliosa umanità a contrasto con una società consumistica e indifferente presto abituatasi perfino agli attentati, dove il cane epilettico sembra essere passato tra le mani di un impagliatore pazzo, umorismo, sensibilità, movimento, ironia e rapidità di tocco descrittivo sono gli elementi che arricchiscono una bella scrittura che sa emozionare.

Ed è proprio l’umanità l’eccezionale dote di Malaussène e della sua atipica famiglia, in un mondo che non sembra più concepito per l’essere umano.

Per Benjamin l’umanità è l’unità di misura delle persone:

Deve avere da qualche parte un cuore che lo intralcia  […] e si scioglie, povero diavolo, come si è sempre sciolto, per eccesso di umanità.

Ci siamo, ho capito cosa non quadra in lei. Era una creatura sensibile un tempo, la Regina Zabo, una ragazzina che soffriva dei mali dell’intera umanità. Un’adolescente tormentata o qualcosa del genere. Enigmatica portatrice del dolore di esistere. Quando il tormento è diventato un calvario, e dopo innumerevoli esitazioni, è andata a bussare alla porta dello strizzacervelli alla moda. Quello, l’Ascoltatore, ha subito capito che era la troppa umanità a disturbare quella bambina vispa, e pazientemente, lettino dopo lettino, gliel’ha estirpata fino all’ultima radice, e al suo posto ha piantato il sociale. Ecco cos’è, la Regina Zabo. Un’analisi riuscita: quando mangia, solo la testa ne trae profitto. Il resto non segue. Ne ho incontrati altri, si somigliano tutti.

Il paradiso degli orchi è divertente, appassionante, commuovente, mai banale e il suo surreale microcosmo ci fa ridere e riflettere.

È impossibile non affezionarsi alla sua variopinta e stralunata umanità, splendida rappresentazione di quell’immenso caos che è la vita.

Dal romanzo di Pennac Il paradiso degli orchi è stato tratto un film nel 2013 diretto da Nicolas Bary.

L’avventura poetica di un libro – il film Il Piccolo Principe

piccolo_principe_film_2Il film di Osborne non è la storia del piccolo principe di Antoine De Saint-Exupéry ma quella di un libro, fatto di pagine di carta, tante volte scompaginate, strappate, volate via e cestinate, e solo alla fine rimesse insieme e rilegate da una piccola lettrice che ne ha saputo riconoscere la preziosità.

Quelle pagine sono la vera avventura, viaggiano nello spazio ripiegate in forma di aeroplano, viaggiano nelle vite di lettori adulti e bambini che le incontrano e ne vivono la storia. Viaggiano nella memoria di chi ha dimenticato e perduto se stesso e nella consistenza delle cose di un mondo fatto di sogni, come nella sciarpa, negli abiti del piccolo principe, anche della stessa volpe di cartapesta, delle dita dell’aviatore che acquistano volume solo dopo le prime scene, e tutto il paesaggio, il deserto stesso è fatto di carta, è diventato tridimensionale senza mai perdere quell’originaria consistenza.

E l’immaginazione che irrompe nel piatto grigiore del mondo fatto di automi, di chi non sa vedere oltre le cose, taglia un muro grigio con una crepa alla Fontana, è lo strappo nel cielo di carta nel pirandelliano teatrino di Oreste che guarda su e scopre la limitatezza della sua visione. Ed ecco che oltre quel muro il mondo finalmente è a colori… gioia, risate, musica, giochi, piccole avventure anche pericolose, in una sola parola la vita, troppo spesso tenuta fuori oltre un muro che noi stessi abbiamo alzato, la vita vissuta con i suoi rischi, le sue paure, la capacità di creare legami e di sopportare anche la perdita di chi si è amato.

La vita insomma, di chi la vive, pascalianamente, con il cuore.

Ed ecco che le immagini del libro sono i personaggi che incontriamo nel mondo, in quello scambio magico tra l’arte e la vita che appartiene alla scrittura, e alla lettura, ed è il libro che diventa esperienza e ci fornisce le chiavi per risolvere e affrontare le difficoltà della vita quotidiana in un mondo che vuole distruggere i nostri giochi e i nostri sogni. Non è un caso che gli oggetti della storia del piccolo principe vengano fuori dopo essere rimasti sepolti da una montagna di scure monetine e che il mondo crudele trasformi i nostri giochi e tutto ciò che è per noi fonte di gioia in una cascata di grigie graffette.

Il film riesce a conservare e potenziare la carica poetica di un libro che ci invita a ricordare, a non dimenticare mai la bellezza della vita e il nostro spirito, che va preservato in un mondo che sembra aver dimenticato cosa significa essere umani.

Non so immaginare cosa potrebbe capitare ad un libro di più bello di un film come il Piccolo Principe, e a chi come me ama sognare, di ritrovarsi al cinema in un’esplosione di stelle.

Storie che fanno sognare – L’occhio del lupo di Daniel Pennac

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Immagine di Michael Passalacqua per Salani Editore

Non so se un giorno vi racconterò mai la storia di come due uomini mi hanno ridato la vita, uno dei quali è Daniel Pennac che, per essere esatti, vestiva i panni di Monsieur Malaussène.

Una di quelle storie troppo personali perché possano avere un significato per qualcuno, a parte ovviamente la sottoscritta (e l’altro uomo che un po’ la conosce già).

E non voglio neanche pensare alle regole di buona scrittura che dovrebbero evitare che il mio lettore, a questo punto già stufo, chiuda indispettito la pagina (ho stranamente in mente una pagina di carta), annoiato da un discorso che tarda a cominciare.

Voglio raccontare l’incanto di una fiaba giocando con i suoi ritmi lenti, e indugiare su quei tempi dilatati che come nient’altro riescono a farmi sentire a casa.

L’autore del romanzo di cui voglio parlare ve lo svelo a questo punto, se vi è sfuggito, è Daniel Pennac, l’incantatore che mi fa perdere continuamente il filo della ragione per quella storia di emozioni che, vi ho detto, non è il caso di spiegare.

Ma veniamo al libro.

L’occhio del lupo è un testo edito in Francia nel 1984 e in Italia da Salani nel 1993, una storia senza tempo il cui fascino trascende i confini generazionali.

Mi è capitato di leggere nel testo Nessun Bambino è un’isola, curato da Stefania Tondo, docente appassionata all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, un saggio di Sue Neale, direttore artistico editoriale di libri per bambini, dedicato a L’occhio del lupo.

La Neale lamenta, mettendo a confronto le edizioni inglesi e francesi, l’uso quasi esclusivamente scolastico in Francia di un testo ricco di fascino e destinato non soltanto ai piccoli lettori.

Ovviamente corro a comprarlo, lo leggo e ne sono ammaliata.

Un ragazzo e un lupo si incontrano, si fissano in silenzio attraverso le sbarre della gabbia di uno zoo, come due animali selvatici costretti in cattività si studiano.

Il lupo chiuso nella sua disperazione guarda il mondo da un occhio solo, metafora della distanza che vuol tenere tra il mondo e la sua prigione. Il ragazzo, il cui nome Africa rievoca un passato di libertà ben diverso dallo zoo, riesce a superare la diffidenza del lupo e a conquistarlo con un atto di estrema sensibilità e solidarietà: chiudendo un occhio.

Cominciano così, come per magia, a scambiarsi le loro storie.

L’occhio del lupo si lascia guardare e lascia che i ricordi affiorino in immagini.

Di dolore, di passato e di sogni.

E l’occhio del lupo guarda nell’occhio del ragazzo che da sempre possiede una dote prodigiosa: racconta storie che fanno sognare.

L’incontro/scontro iniziale si risolve dunque in un intenso scambio.

Il ragazzo si ritrova in Alaska a ripercorrere la vita del lupo e della sua famiglia fino al giorno della sua cattura. Mentre il lupo rivive il viaggio del ragazzo attraverso i mille volti dell’Africa, la Gialla dei deserti, l’Africa Grigia delle savane e la Verde delle foreste equatoriali, fino al suo arrivo nell’Altro Mondo, il cosiddetto mondo civilizzato in cui si sente prigioniero, e allo zoo dove però ritrova tutti i suoi amici animali, compagni di avventura.

Una storia delicata e tenera, dai buoni sentimenti, che svela l’intensità del raccontare storie.

Pennac ci mostra quanto sia difficile fidarsi di qualcuno e raccontarsi, ma anche quanta bellezza e felicità può derivare dallo scambio che finalmente avviene.

Dall’incontro di due solitudini non nasce soltanto un’amicizia.

La condivisione delle proprie personali esperienze ricongiunge all’altro, alla vita, ma soprattutto a se stessi, e alla fine fa aprire gli occhi:

La vita è strana … Qualcuno ti racconta qualcosa che tu nemmeno sapevi che esistesse, qualcosa di inimmaginabile, qualcosa che hai difficoltà a credere e non appena le parole sono state pronunciate tu scopri tante cose su te stesso.

La presenza dell’altro turba il lupo ma il ragazzo sa imporsi con dolcezza e lo costringe al confronto. Lo scambio porta con sé quella gioia che solo l’empatia può donare.

Tante volte il ragazzo ha avuta salva la vita e lungo il suo cammino ha trovato tanti amici grazie alle sue belle storie, e lo stesso autore ha trascorso la sua infanzia viaggiando in Europa, Africa e Sudest asiatico, seguendo gli spostamenti del padre ufficiale.

Forse per questo L’occhio del lupo è un testo che Pennac preferisce a molti suoi libri. O forse perché è un libro sulle belle storie e la felicità che sanno donare.

In più di un’intervista l’autore ha confessato il suo amore per la scrittura che trova eccitante quanto la lettura, e ha dichiarato di essere prima ancora che uno scrittore, un narratore di storie. (E qui per divertirci un po’ possiamo ascoltarlo mentre legge un passo del suo libro durante il forum tenuto nella redazione fiorentina di Repubblica in occasione di un riadattamento teatrale de L’occhio del lupo andato in scena a Pistoia il 26 ottobre 2013).

Ecco perché Sue Neale è tanto infastidita dalla decostruzione del testo operata nelle edizioni scolastiche francesi per insegnare ai bambini il processo della scrittura, l’analisi del testo e dei personaggi, dimenticando quasi del tutto la natura mitica della storia e il piacere della lettura (la cui importanza qualche anno più tardi lo stesso Pennac descriverà in Come un romanzo del 1992).

Il libro di Pennac riesce ad appagare quel desiderio di perdersi con gioia nelle pagine mentre si è stimolati da contenuti profondi e una visione seria del mondo reale che solo apparentemente è nascosta.

L’occhio del lupo è considerato un romanzo per ragazzi. Un errore comune, ne abbiamo discusso molto con Stefania, è credere di trovarsi davanti un oggetto destinato ad un target di lettura circoscritto e appartenente ad un genere in qualche modo minore o marginale. Testi ignorati dalla maggior parte degli adulti che sembrano dimenticare anche la semplice verità che la produzione e la diffusione della Children’s literature è comunque opera di adulti, magari di quegli adulti che non hanno perso la capacità di camminare con leggerezza e di guardare il mondo con continuo stupore.

Quella leggerezza che Calvino considera un valore perché preserva la vivacità dell’intelligenza.

Al crossover letterario (di opere che attraversano i confini generazionali coinvolgendo più fasce d’età) partecipano gli adulti, scrittori e lettori, che sentono di dovere arricchire la propria dimensione esistenziale, che vogliono riflettere sul senso della vita, e che vedono aumentare le proprie responsabilità intellettuali e morali a causa della crescente complessità e incertezza del vivere.

Ci sono storie come quella di Pennac, che riescono a liberarci, che riescono a ridurre il peso del mondo, e a donarci una leggerezza che difficilmente potremmo sperare, imprigionati come siamo nell’inerzia e nell’opacità della vita contemporanea.

Cosa dovremmo innanzitutto cercare nei libri? Il piacere della lettura.

I livelli di lettura del testo di Pennac sono molteplici ma appare fin troppo chiaro quanto lo Storytelling  (meravigliosamente biasimato da Bruce Sterling nell’articolo di Letizia) sia considerato un mezzo importante per comprendere gli altri. Tanto che il romanzo di Pennac offre addirittura un metodo suggerito ai terapeuti.

L’occhio del lupo è un libro magico che ha molto da insegnare anche agli adulti e che sa affascinare chi ama sognare, chi ama le belle storie e le fiabe belle da ascoltare, leggere e raccontare.

Divergent – dopo Hunger Games la distopia di Veronica Roth

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Nelle sale cinematografiche italiane è arrivato Divergent (qui c’è il trailer), di Neil Burger, il primo film tratto dall’omonima trilogia di Veronica Roth, che ha destato la curiosità di tutti quelli che si sono appassionati al ‘fenomeno’ Hunger Games, ai film di Gary Ross e Francis Lawrence tratti dai primi due romanzi di Suzanne Collins, a cui seguiranno due nuovi episodi a novembre 2014 e 2015, ricavati dal terzo e ultimo libro.

Il confronto pare inevitabile, a soli quattro mesi di distanza, non fosse altro per l’analogia del soggetto distopico destinato ad un pubblico young adult che ha come protagoniste due giovanissime intrepide eroine. Analoga l’operazione commerciale e mediatica che mira anche al rilancio dei libri, i più pubblicizzati al momento su tutti i siti di lettura e non solo.

La critica statunitense ha espresso in maniera quasi unanime la sua preferenza per Hunger Games, in alcuni casi liquidando Divergent, che risulta penalizzato per la semplice ragione di nascere alla sua ombra.

È vero che il film di Burger risente dell’atmosfera di quello di Lawrence, così come il libro della Roth ne risulta in parte ispirato. E il fatto che il film sia uscito quasi a ridosso di Hunger Games per cavalcarne l’onda del successo è un’operazione di marketing difficile da biasimare e che ad ogni modo continuerà a sfruttarne la visibilità visto che sempre a pochi mesi di distanza dai prossimi episodi di Hunger Games sono previste le uscite anche dei successivi capitoli di Divergent.

Tra l’altro è proprio di questi giorni l’annuncio che il terzo e ultimo libro della Roth, Allegiant sarà prodotto in due film proprio come Mockingjay, l’ultimo capitolo di Hunger Games.

Ma senza forzare un confronto che risulterebbe un po’ fine a se stesso e ammettendo le scontate analogie, dovute più che altro al genere distopico, è interessante valutare, come già osservato per Hunger Games, quanto ci sia di buono in questo genere di film e di libri per un universo giovanile e non solo. E la storia presenta anche qui degli elementi di valore se si va a guardare oltre la superficie di un prodotto ben confezionato.

Parliamo quindi innanzitutto del libro.

Divergent è dunque il primo capitolo della trilogia scritta dalla giovanissima Veronica Roth, autrice statunitense, a soli 23 anni, pubblicato nel 2011 negli Stati Uniti dove ha venduto milioni di copie, e nel marzo 2012 in Italia da De Agostini.

Beatrice Prior ha sedici anni e non si conosce. Ma non come tutti gli adolescenti. A lei è permesso guardarsi nello specchio di casa solo una volta ogni tre mesi, quando la madre le taglia i capelli.

Lo specchio è il primo oggetto che incontriamo in questa storia, e Beatrice osserva un riflesso che le è estraneo, e ogni volta che si scorge nei palazzi di vetro e acciaio della sua città non si riconosce. Fugge anche gli sguardi per non vedersi e per non essere vista, e anche quando si cerca nel riflesso del suo orologio da polso, l’unico ornamento consentito agli Abneganti, Beatrice sa che deve ancora trovarsi.

Fino a quando non diventerà Tris, una Divergente.

‘Guardarmi ora non è come vedermi per la prima volta, è come vedere qualcun altro per la prima volta. Beatrice era una ragazza che intravedevo nello specchio in momenti rubati, che stava in silenzio a tavola durante la cena. Questa è una persona i cui occhi attirano i miei e non li lasciano più andare. Questa è Tris’.

Un romanzo distopico ambientato in un futuro prossimo nella Chicago in cui oggi vive l’autrice ma che nel libro ha saputo ritrovare la pace dopo una lunga guerra, costruendo una società ordinata i cui abitanti sono divisi in fazioni secondo la propria indole dominante, coraggiosa, altruista, gentile, onesta o sapiente.

Il giorno della scelta, compiuti i sedici anni, i giovani sono chiamati a indicare la fazione nella quale vorrebbero trascorrere il resto della loro vita, che può corrispondere o meno a quella d’origine. I cosiddetti transfazione, scegliendo una nuova fazione sono costretti a lasciarsi alle spalle il passato e a dire addio ai propri familiari.

Tutti i ragazzi sono sottoposti ad un test psicoattitudinale, il cui risultato può guidarli nella propria scelta che resta comunque libera.

È una società utopica che rispetta e asseconda la natura dei propri abitanti o una tirannia che esercita una forma di controllo velata da una apparente libertà? In quella che potrebbe sembrare quasi una società perfetta, tutto funziona perché tutti sanno qual è il loro posto.

Tutti tranne i Divergenti.

Per alcuni soggetti il risultato del test è inconcludente. Non è possibile collocarli all’interno di una delle cinque fazioni, non sono né Abneganti né Candidi, né Intrepidi, Eruditi o Pacifici, o sono più ‘qualità’ insieme. Sono più forti mentalmente, non si lasciano condizionare e sviluppano forme autonome e imprevedibili di pensiero.

Per lo stato rappresentano una minaccia.

‘Ogni fazione condiziona i suoi membri a pensare e a agire in un certo modo. La maggior parte della persone si adegua. Per loro non è difficile imparare, acquisire uno schema di pensiero che funziona e attenersi a quello per sempre… noi [Divergenti] non possiamo essere confinati in un solo modo di pensare, e questo terrorizza chi detiene il comando. Significa che non possiamo essere controllati. Significa che qualunque cosa facciano, noi creeremo sempre problemi’.

Le tradizioni delle fazioni guidano i comportamenti dei membri sostituendosi ai gusti personali, e ogni fazione ha le sue regole da rispettare. La prima legge universale è ‘la fazione prima del sangue’, l’individualità deve essere sacrificata in nome del bene comune e l’unico modo per conservare la pace è soggiogare il popolo.

‘La pace è controllo. Questa è la libertà’.

Nella società distopica immaginata da Veronica Roth la vita è fatta di obblighi, o in alternativa si può scegliere di vivere da Esclusi, come quelli che sono stati cacciati dalla società perché non sono riusciti a completare l’iniziazione della fazione che hanno scelto, e che vivono soli, emarginati, separati dalla comunità, senza uno scopo e una ragione.

Beatrice sa di non appartenere alla fazione in cui è nata, quella degli Abneganti. Guarda come una straniera la vita della sua famiglia, la ammira ma non la sente propria. Non riesce ad adeguarsi alle sue regole, che sembrano anche più restrittive e severe di quelle delle altre fazioni tanto da ricordare i precetti della fede cristiana (evocata anche dal rituale della lavanda dei piedi degli iniziati, dalla cena condivisa e servita, dal battesimo con cui da bambina la sua vita è stata offerta a Dio).

Beatrice guarda agli Intrepidi che sembrano giovani, affascinanti teppisti, vestono di nero, hanno piercing e tatuaggi, sono rumorosi, gridano e giocano a carte, mentre gli Abneganti sono silenziosi e devono dimenticarsi di se stessi, una massa indistinta vestita di grigio che si muove con ritmo uniforme come assorbita da una mente collettiva sempre proiettata verso l’esterno.

La scelta degli Intrepidi da parte di Beatrice risulta la più immediata per adolescenziale spirito di emulazione, non solo perché ne subisce il fascino, ma perché sente di essere già come loro, sente in lei una parte troppo importante di sé che gli Abneganti le avevano sempre chiesto di nascondere.

Beatrice soffre il distacco dalla sua famiglia che ama profondamente, ma non può rinunciare a se stessa. Decide di lasciarla e andare incontro all’ignoto, ma per ogni membro della famiglia da cui ha dovuto separarsi, un uccello in volo verso il suo cuore è tatuato sulla sua pelle.

Per essere accettata dalla nuova fazione Tris, scontrandosi con gli altri iniziati, dovrà affrontare una serie di prove simili ai livelli da superare in un videogame, fino a quelli che potremmo chiamare ‘Brain Games’, delle terribili sfide virtuali realizzate a partire dalle fobie stimolate chimicamente nei partecipanti, che saranno per lei un momento di confronto, di crescita oltre che di scoperta dell’amicizia e dell’amore.

L’invenzione della Roth che segna il suo universo distopico, è l’idea del controllo della mente ottenuto chimicamente, che sarà usato anche come sistema di manipolazione per formare un esercito di soldati incoscienti comandati a distanza dai malvagi Eruditi che, convinti di essere nel giusto perché più colti degli altri, vogliono conquistare il potere.

La Roth fa l’errore, che si può concedere comunque all’inesperienza (è pur sempre il primo romanzo di una giovane ventitreenne), di trattare in modo troppo elementare e schematico le idee di fondo che sono interessanti. Alcuni ragionamenti di Beatrice sono un po’ forzati e contraddittori e le sue emozioni non così bene indagate come avrebbero dovuto essere, anche nei momenti tragici non è esplorato abbastanza l’animo della protagonista e le sue reazioni sono o troppo scontate o troppo superficiali.

Per fare un riferimento ad Hunger Games, anche i romanzi della Collins hanno delle lacune e qualche volta risolvono in modo frettoloso alcune situazioni, ma sanno emozionare. La più grande differenza tra le due protagoniste dei romanzi è che Beatrice non ha il senso di umanità di Katniss che pur tra mille dubbi e paure si preoccupava soprattutto di proteggere gli altri, mentre Beatrix dall’inizio alla fine della storia cerca solo se stessa.

Non è certo un crimine non essere poi così altruisti o in alcune situazioni esserlo più di quanto ci si aspetti, fa parte dell’essere umani, e la bellezza e l’utilità di questa storia è nel percorso di crescita della protagonista che trova la forza di diventare adulta e di essere se stessa, affrontando le sue paure e scoprendo il valore della sua unicità.

Resta il peso di una tendenza moraleggiante che somiglia molto ad una forma di bigottismo religioso di cui al momento Tris non è ancora riuscita a liberarsi del tutto, ma confidiamo nei prossimi capitoli.

La straordinaria scoperta del Profondo Blu – The Blue Nowhere di Jeffery Deaver

71ZnOQQQFcL__SL1202_‘È possibile… commettere quasi qualsiasi crimine col computer. Si può persino uccidere qualcuno utilizzando un computer’.

Una delle gioie più grandi della lettura è quel momento in cui metti a fuoco qualcosa all’improvviso che non ti aspettavi. Un effetto sorpresa che solo un libro può regalare e neanche il miglior regista può ricreare.

Il mezzo apparentemente limitato delle parole, l’unico mezzo a disposizione di uno scrittore, possiede uno straordinario potere evocativo perché l’immagine si crea in maniera personalissima direttamente nella mente del lettore. Ed è l’abilità dello scrittore a condurre questo gioco sottile intimamente connesso alla nostra immaginazione.

Una parola detta al momento giusto è come una nota suonata su un tempo perfetto. È il segreto della suspense. È un personaggio costruito un tratto alla volta in una scena che a poco a poco si disvela e in un modo in cui non ti aspetti, e il cuore accelera i suoi battiti e alla fine del capitolo alzi gli occhi e resti in attesa che lo spavento passi.

Poi ecco che non resisti, fai appello al diritto del lettore invocato da Pennac di saltare le pagine, e vai alla ricerca di quel personaggio lasciato lì solo, indifeso, in pericolo… ti domandi cosa gli sarà mai successo mentre l’autore introduce un altro personaggio e tu non vuoi saperne, non ti importa nulla di Wyatt Gillette che da ore è impegnato a smantellare una radio lentamente lentamente…

Che fine ha fatto Lara? Poi ti calmi e aspetti, Lara non è nelle pagine successive e il rispetto profondo che hai nei confronti dello scrittore ti costringe a tornare indietro e riprendere la lettura secondo le sue scelte. Torni a Wyatt e alla sua radio e ancora una volta l’autore ti sorprende, non ti ritrovi col batticuore come prima ma non puoi fare a meno di apprezzare la sua tecnica descrittiva e il gran gusto che ti fa provare.

Ed è solo il terzo personaggio incontrato, ed è solo l’inizio del secondo capitolo. Si preannuncia una lettura davvero emozionante e sei già grato di aver cominciato il libro, pronto a perdonare qualunque cosa in cambio del piacere che stai provando. Ma andando avanti per 450 pagine non c’è un solo momento per potersi ricredere.

L’emozione provata fin dalle prime battute dura tutto il libro, la tecnica narrativa è strabiliante, e geniale è il modo in cui Jeffery Deaver riesce a smentire puntualmente qualunque nostra supposizione con continui colpi di scena.

Il consiglio migliore da dare a chi decide di intraprendere la lettura di Profondo Blu è di preoccuparsi di avere del tempo libero a disposizione perché una volta iniziato è impossibile lasciarlo andare.

‘Lo schermo prese vita, una C:> comparve sullo schermo, e nel vederla Phate resuscitò dal mondo dei morti.

Chi vuoi essere?

Be’, in quel momento non era più Jon Patrick Holloway o Will Randolph o Warren Gregg o James L. Seymour o uno qualsiasi degli altri personaggi che aveva creato, un gruppo di persone intrappolate nel mondo reale. Ora era Phate. Non era più l’uomo biondo, alto poco più di un metro e settanta, dal fisico poco robusto, che si aggirava senza meta in un labirinto tridimensionale fatto di case e uffici e negozi e aerei e autostrade e prati aridi cancelli semiconduttori impianti marciapiedi centri commerciali cuccioli persone persone persone persone numerose e insignificanti come byte digitali… e tutto questo era fasullo, inutile e deprimente.

Quella era la sua realtà: il mondo dentro il monitor’.

The Blue Nowhere, arrivato in Italia nel 2001 col titolo Profondo Blu, è il sedicesimo romanzo di Jeffery Deaver, maestro assoluto di thriller e vincitore di numerosi premi, che ha raggiunto fama internazionale con Il collezionista di ossa del 1997, vincitore del Nero Awards nel 1999, da cui è stato tratto l’omonimo film. È anche autore di una travolgente avventura di James Bond, Carta Bianca, vincitrice del 2011 Bouken-shousetsu Adventure Fiction Award per il miglior romanzo straniero.

Profondo Blu è un thriller informatico ambientato nella Silicon Valley, la terra che ha cambiato il mondo grazie alla scoperta dell’audion, il primo tubo a vuoto elettronico il cui impiego ha consentito l’invenzione della radio, della televisione, dei radar e, naturalmente, dei computer. La terra di Re Mida, dove si fabbrica l’oro con la pura immaginazione, ‘rifugio per spostati e hacker’, phreak e call jacker, white hat, geek e uomini d’affari in jeans, camicia stropicciata e cravatta con l’immagine di Titti.

‘In principio Dio creò il network Agenzia ricerche progetti avanzati, chiamato ARPAnet, e ARPAnet sbocciò e diede vita a Milnet, e ARPAnet e Milnet diedero vita a Internet, e Internet, USENET e il World Wide Web divennero la trinità che cambiò la vita del Suo popolo per tutti i secoli dei secoli’.

I computer sono la prima invenzione tecnologica della storia in grado di toccare ogni aspetto della vita umana. The Blue Nowhere è il cyberspazio, il mondo dei computer on e offline, il Mondo delle Macchine, quel luogo intangibile eppure reale, blu come l’elettricità che permette ai computer di funzionare nelle nostre vite diventate un unico, grande hack.

La linea di confine tra il Mondo Reale e il Mondo delle Macchine sta diventando di giorno in giorno sempre più confusa. Ma non ci stiamo trasformando in automi, né stiamo diventando schiavi delle macchine. No, ci stiamo avvicinando. Stiamo piegando le macchine al nostro volere e alla nostra indole, proprio come abbiamo fatto con la natura, l’ambiente e le tecnologie del passato. Nel Nulla Blu, nel contempo, le macchine stanno assumendo la nostra personalità e la nostra cultura, il nostro linguaggio, i nostri miti, le nostre metafore, la nostra filosofia e il nostro spirito. E la nostra personalità e la nostra cultura vengono cambiate sempre di più dal Mondo delle Macchine.

Penso all’uomo solitario che un tempo tornava a casa dal lavoro e passava la notte a mangiare patatine guardando la TV. Adesso quell’uomo accende il suo computer e si avventura nel Nulla Blu. Un luogo con cui può interagire … Non può più essere passivo. Deve dare degli input per ottenere delle risposte. Ha raggiunto il livello più alto dell’esistenza e tutto questo è accaduto perché le macchine sono venute da lui. È accaduto perché parlano il suo linguaggio.

Nel bene e nel male le macchine ora riflettono la voce, lo spirito, il cuore e gli obiettivi dell’uomo.

Nel bene e nel male, riflettono la coscienza, o anche la mancanza di coscienza, dell’uomo’.

‘Internet, oggi, è per lo più un incrocio tra un centro commerciale, un’edicola, una multisala e un parco di divertimenti … La tecnologia punta e clicca del mouse può essere appresa senza difficoltà da un bambino di tre anni … Questa è Internet così come viene confezionata per il pubblico attraverso la facciata luccicante del World Wide Web commerciale.

Ma la vera Internet – l’Internet dei veri hacker che si annida dietro il Web – è un luogo brullo e selvaggio in cui i pirati informatici usano comandi incomprensibili, utility telnet e software per le comunicazioni ridotti all’osso per navigare attraverso il mondo letteralmente alla velocità della luce …

cercare qualcosa nel nulla blu … è come aggirarsi nell’universo in continua espansione che contiene non solo il mondo conosciuto e i suoi misteri mai svelati, ma anche i mondi passati e quelli che devono ancora nascere.

L’infinito’.

Una volta che si è stati nel Nulla Blu, non si può più tornare completamente nel Mondo Reale’.

Phate è un serial killer che intraprende un gioco spietato, sceglie le sue vittime e le intrappola nella sua rete grazie a Internet e al social engineering, tecnica con cui riesce ad ingannare qualcuno fingendo di essere quel che non è, e conquistandone la fiducia.

L’Unita Crimini Informatici, la Squadra Geek disprezzata dagli altri poliziotti, è a caccia di Phate. Una squadra composta da Agenti CCR (cattura, cerca e registra) chiamati anche archeologi informatici, dagli innovatori del mondo dei computer appartenenti alla seconda generazione di programmatori dei primi anni settanta, insieme alla terza generazione degli hacker, ‘ispirata da un innocente senso di meraviglia’, che ‘si introduce nella macchina di qualcuno solo per dimostrare che è in grado di farlo e per scoprire che cosa contiene’ mossa dalla curiosità e da un’etica che non consente di fare del male.

Mentre Phate fa parte di quelle ‘persone che si introducono nei sistemi per commettere atti vandalici o per rubare … chiamati cracker. Un termine derivato da safecracker, scassinatore’. Solo che Phate è ‘un kraker con la K. Come killer’. Perché ‘il mondo degli hacker è tutta una questione di spelling’. Phate è un ‘Demone’ appartenente alla quarta generazione degli informatici, ‘disincantata e mossa dalla rabbia’, descritta da Jonathan Littman in The Watchman.

Il crimine del nuovo secolo è la violazione, della privacy, dei segreti, delle fantasie… ‘L’accesso è Dio…’ e tutto prima ancora dell’arrivo di Facebook e dei Social Network…

Jeffery Deaver che con The Blue Nowhere si cimenta mirabilmente con il mondo degli hacker, rende omaggio a William Gibson, visionario della fantascienza, e al suo romanzo Neuromante, ‘la Bibbia che ha fatto conoscere al pubblico il termine cyberpunk’. William Gibson e Bruce Sterling, scrittore e giornalista statunitense che ha fornito anche un contributo teorico al genere, hanno dato vita ad una nuova corrente letteraria dotata di uno straordinario fascino e destinata non soltanto agli esperti della materia.

Tant’è che Deaver strizza l’occhio anche al romanzo gotico e ai grandi maestri del terrore come Edgar Allan Poe, Washington Irving e Nathaniel Hawthorne che furono fonte di ispirazione per i primi scrittori horror del Novecento e che riaffiorano nella mente confusa di un giovane hacker che ha paura dei fantasmi.

La cosa più strana è che grazie ai computer la nostra vita in qualche modo è come ritornata ad un’epoca antica, magica e superstiziosa. Prima dei computer la vita era visibile, comprensibile, mentre ora è nascosta. Il Web, il codice, i bot, gli elettroni e mille altre cose che non si possono vedere hanno qualcosa di spaventoso proprio come i fantasmi… il mondo sembra ‘un luogo uscito da uno di quei romanzi ottocenteschi di Washington Irving o Edgar Allan Poe. Sleepy Hollow o The House of Seven Gables, roba del genere’.

Profondo blu è un romanzo che ho letteralmente trovato, una di quelle sere in cui ti accosti in modo del tutto casuale ad un libro che non hai scelto ma che ti è capitato tra le mani. Una circostanza fortunata e una più che lieta scoperta coronata da quella che chiamo una classica storia di coraggio, quando, immersa nel Profondo blu, un rumore (reale? ma proveniente da quale realtà?) mi ha fatto sobbalzare dal divano sul quale ho poi deciso di aspettare comodamente sdraiata quello che certamente doveva essere il mio killer. Sono ancora viva per fortuna, ma la serratura della porta di una stanza che si chiude dall’interno senza che nessuno l’abbia azionata è proprio quello che non dovrebbe accadere mentre sei sola e leggi un libro di Jeffery Deaver.

Avventura mistero e molto di più Amazzonia di James Rollins

amazzoniaUn uomo in fin di vita, con indosso solo un paio di pantaloni stracciati, disidratato, emaciato, la pelle tatuata bruciata dal sole, il corpo ricoperto di tagli e piaghe aperte, la lingua recisa e affetto da febbri deliranti, è risputato dalla giungla amazzonica dopo quattro anni solo per morire in poche ore nella missione di Wauwai in Brasile, ma la cosa davvero sconcertante è che quell’uomo che aveva perso un braccio in Iraq ha entrambe le braccia.

Gerald Clark, ex agente delle forze speciali, infiltrato per conto della CIA nella spedizione capitanata dal professore Carl Rand che aveva lo scopo di censire le tribù amazzoniche e studiare le applicazioni terapeutiche delle piante della foresta pluviale preservando il sapere degli sciamani, era tra i trenta ricercatori e guide misteriosamente scomparse quattro anni prima dopo soli tre mesi di ricerche, inghiottite dalla giungla.

Il cadavere recuperato dall’esercito americano e sottoposto ad autopsia rivela che le cause della morte sono legate ad una vera e propria esplosione di tumori che nel giro di tre mesi ha divorato tutto il corpo dell’ex militare. La rigenerazione miracolosa dell’arto di Gerald Clark potrebbe essere strettamente connessa alle cellule tumorali che hanno invaso il suo corpo.

Cellule staminali ancora indifferenziate hanno rigenerato il braccio dell’agente per poi trasformarsi in qualcosa di letale per il suo organismo, ma in che modo e per quale ragione?

Solo la giungla può fornire delle risposte ai molti interrogativi posti da questo ritrovamento. Il governo statunitense ha interesse a scoprire le cause e la natura del processo rigenerativo, così come le case farmaceutiche di tutto il mondo. Due spedizioni rivali partono per l’impervia giungla amazzonica alla ricerca di quello che appare a tutti il suo segreto inviolabile.

Nel frattempo una nuova emergenza si somma all’interesse scientifico (e chiaramente anche economico) delle spedizioni: un’epidemia si sta diffondendo negli stati attraversati dal cadavere di Clark. Bisogna trovare il più velocemente possibile anche un antidoto.

Il romanzo di James Rollins, Amazzonia, pubblicato nel 2002 negli Stati Uniti da Editrice Nord e arrivato in Italia due anni dopo, ha inizio così, con un ritmo serrato, un esordio alquanto originale e un brillante colpo di scena dopo sole poche pagine. Ci ritroviamo completamente catapultati nella giungla amazzonica e in un’indagine che sa di spionaggio, tra CIA, documenti segreti,  case farmaceutiche, università americane, progetti di ricerca scientifica.

Alcuni tenui momentanei risvegli sono offerti dai collegamenti in videochiamata dalla giungla, come quando la bambina che indossa una camicia da notte su cui è ritratta Pocahontas appare alla mamma lontana chiedendole se ha visto i leoni nella giungla. Immagini semplici che ci riportano alla vita quotidiana, interrompendo per un attimo con efficacia l’immersione romanzesca e facendo diventare d’un tratto tutti i personaggi più reali, ognuno con una propria storia che li rende speciali e lontani dai soliti cliché.

La giungla sembra possedere un corpo e un’anima, una volontà determinata a spazzare via gli stranieri che invadono il suo territorio. Il gruppo viene decimato in mille modi spaventosi. Le morti sono inevitabili, gli attacchi imprevedibili e tutto l’addestramento e l’abilità dei ranger armati fino ai denti per proteggere la spedizione dei civili non riuscirà a salvarli dal pericolo che li attende. Persino l’esperienza di chi conosce bene l’ambiente e ha vissuto a lungo nella giungla viene messa a dura prova.

Qualcosa di mostruoso e imprevedibile si manifesta. Potenze inimmaginabili si scatenano numerose cogliendo tutti di sorpresa e ogni piccola distrazione sarà l’errore pagato con la vita.

La natura soggetta a straordinarie mutazioni genetiche sembra aver moltiplicato le proprie forze e potenziato le proprie armi mortali: rane-pirahna in grado di uscire dall’acqua per attaccare e inseguire le prede, caimani di trenta metri, sciami di locuste carnivore, animali diventati mostruosi. E mentre la giungla nasconde sempre nuove inaspettate insidie e la suspense decolla, in Virginia l’Instar Institute in collaborazione con i laboratori di tutto il paese cerca di decifrare le cause dell’epidemia altrettanto straordinaria e mortale, figlia di quella stessa giungla micidiale.

Il romanzo di Rollins è avvincente. Avanza con un ritmo incalzante attraverso la giungla tenendoci all’erta per i pericoli sempre in agguato e speranzosi che il suo mistero sia finalmente svelato, e parallelamente ci lascia in trepidante attesa di una qualche miracolosa scoperta dei medici e studiosi di tutto il mondo che cercano di salvare le molte vite sospese a un filo delle persone contagiate dall’epidemia.

Le descrizioni della giungla sono accurate e garantiscono una totale adrenalinica immedesimazione, e le indagini scientifiche sono spesso corredate da una documentazione che le rende più interessanti e plausibili, mai noiose. La lettura scorre leggera e piacevole grazie allo stile avvolgente dello scrittore, al suo senso della storia e dei personaggi e una trama ricca di colpi di scena che impedisce di staccarsi dalla pagina.

Il racconto avventuroso della missione nella giungla ha avuto molti interpreti e diversa fortuna, e da molte storie sono stati tratti anche film, come Congo di Frank Marshall dal romanzo di Michael Crichton. Senza una buona storia da raccontare il rischio che corre questo tipo di narrazione è di annoiare il lettore con la descrizione di una lunga passeggiata nella foresta amazzonica risvegliata soltanto da attacchi mortali che vanno a decimare i protagonisti.

Non è questo il caso di Amazzonia che arricchisce la trama di molti interessanti spunti, come la descrizione quasi romantica dell’ecosistema amazzonico con i tanti rapporti di interdipendenza che la natura riesce a creare con i suoi abitanti di tutte le specie, la trattazione da manuale delle erbe medicinali estratte dalla foresta alla base di molti rimedi della moderna scienza medica, la saggezza degli sciamani che si impone sull’etnocentrismo occidentale (lo stesso Rollins indica la fonte di ispirazione del romanzo nei Tales of a Shaman’s Apprentice del dottor Mark Plotkin), le affascinanti tradizioni delle tribù come quella Yamonamo (il ‘popolo fiero’), la spaventosa leggenda dei Ban-ali (i ‘giaguari del sangue’), la malvagia donna Shuar che pratica riduzione di teste, la madre Yagga (un prodigioso albero della vita che anticipa quella che sarà l’idea centrale del film Avatar), le interessanti osservazioni scientifiche sulle mutazioni genetiche documentate in maniera realisticamente accattivante.

Accanto agli elementi di carattere scientifico, storico, politico, geografico, etnoantropologico e mitologico, non mancano considerazioni di natura filosofica sull’impatto ambientale della distruzione indiscriminata della foresta operata dalla cosiddetta civiltà, sulla necessità di salvaguardare l’inestimabile biodiversità amazzonica e le popolazioni indigene, di cui i protagonisti, dotati di un’insolita forza morale, hanno un profondo rispetto.

James Rollins è attualmente uno degli scrittori di romanzi d’avventura più apprezzati e per il New York Times è il miglior autore internazionale di thriller. Nel 2007 gli è stata affidata la trasposizione letteraria del film Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, e forse non a caso, dato che la sensazione che si prova leggendo Amazzonia è proprio quella di vivere una delle straordinarie avventure del personaggio tra i più amati della storia del cinema.

I romanzi di Rollins sono tradotti in quaranta lingue col meritato plauso del più stimato scrittore di avventura, Clive Cussler, che a proposito di Amazzonia parla di azione senza un attimo di tregua, “An adventure tale in the grand manner. Rollins takes the reader through the horror and intrigue of the Amazon like no one else. The action never relents”.

Il valore di una storia arrivata al cinema: il film La ragazza di fuoco

hunger-games---la-ragazza-di-fuoco_288[1]Dopo lo straordinario successo al cinema di Hunger Games: Catching Fire negli Stati Uniti, La ragazza di fuoco ha scatenato anche in Italia un caso mediatico e in molti hanno subito pensato di trovarsi dinanzi allo sfruttamento commerciale di una saga come tante altre.

È fin troppo facile schierarsi contro quella che può apparire l’ennesima storia creata appositamente per un universo giovane e facile all’idolatria. Ma anche se così fosse, gli Hunger Games, i film come i libri, hanno un proprio valore e dovrebbero farci riflettere su quelle semplici ma fertili idee che possono trasmettere ai giovani e non solo.

La guerra vissuta con gli occhi di una ragazza che non ne capisce il senso, la forza d’animo che i protagonisti sanno trovare pur tra tanti dubbi e paure, il coraggio di combattere contro un potere crudele e totalitario, la lealtà, la fiducia e l’amore che lega chi ha deciso di schierarsi contro quel potere, l’aiuto reciproco che sanno darsi, la sincerità dei sentimenti, la fratellanza che riunisce un popolo oppresso, dovrebbero aiutarci a ritrovare anche un po’ della nostra umanità. E chi dice che una storia per ragazzi non possa emozionare anche un pubblico adulto? Avere un profondo valore, o persino qualcosa di vagamente somigliante ad un’etica?

La trilogia di Suzanne Collins non ha nulla di morboso ed è certo più impegnata dei libri per ragazzi che hanno avuto molta fortuna al cinema negli ultimi anni. L’autrice non biasima soltanto la società dello spettacolo di un futuro neanche poi tanto remoto, che esercita controllo e potere su un popolo sottomesso da una combinazione di forze armate e videocrazia, ma soprattutto sottrae ogni alibi e pretesa innocenza alla nostra identità di spettatori e finiamo per sentirci in qualche modo compartecipi, direttamente chiamati in causa.

Come il primo, anche il secondo film, La ragazza di fuoco, non è certo un capolavoro, ma per i temi trattati, vale certamente la pena vederlo, così come vale la pena leggere il libro. Tra l’altro se un film che dura quasi due ore e mezzo dà la sensazione che ne siano trascorsi molti di meno, sicuramente è ben raccontato, soprattutto quando, nonostante le imperfezioni, vorremmo che continuasse ancora. Il talento di Suzanne Collins che prima di scrivere Hunger Games è stata anche sceneggiatrice per il cinema si vede meglio in questo secondo film che è più strutturato del primo.

Rispettoso del libro, La ragazza di fuoco è un buon capitolo di passaggio costruito per essere ‘una parte’, arricchisce la storia, costruisce le basi e crea attesa per i successivi episodi che saranno al cinema a novembre 2014 e 2015, e se non è semplicissimo ricostruire l’accaduto per chi non ha visto il primo film o letto il libro, il problema è facilmente risolvibile, e resta tale soltanto per chi è interessato a Catching Fire e non a Hunger Games.

Francis Lawrence, subentrato a Gary Ross nella regia, riesce a dare più forza emotiva al film prestando maggiore attenzione alla storia, alle relazioni tra i protagonisti, ai dialoghi che ci consentono di approfondire le caratteristiche psicologiche dei personaggi che sono cresciuti nei loro ruoli e sono più saldi. Il film diventa così più appassionante e coinvolgente per la sua maggiore complessità e potenza narrativa, visiva ed emotiva. Katniss si sta trasformando in un’eroina più consapevole ed è più profondamente reale. I molti primi piani della protagonista Jennifer Lawrence enfatizzano tutte le emozioni impresse sul suo volto e nei suoi occhi. Anche Josh Hutcherson e Liam Hemsworth (rispettivamente nei ruoli di Peeta e Gale) migliorano, e splendide sono le interpretazioni di Jena Malone e Sam Caflin, due nuovi affascinanti tributi.

Anche Woody Harrelson (il prezioso mentore Haymich), Elizabeth Banks (la straordinaria Effie), Lenny Kravitz (l’amato stilista Cinna), Stanley Tucci (il raggiante Caesar Flickerman, presentatore televisivo dei giochi) e Donald Sutherland (il terribile presidente Snow), sono più convincenti.

Il modo in cui Effie acquisisce consapevolezza che Katniss e Peeta le saranno strappati via è davvero straziante. La scelta del presidente Snow di mandare agli Hunger Games i vincitori delle precedenti edizioni dei giochi allo scopo di uccidere nei distretti anche la speranza di cui i vincitori sono l’incarnazione, si rivela una mossa sbagliata per Capitol City perché a differenza dei soliti tributi sconosciuti al pubblico e considerati delle semplici pedine in gioco, i vincitori sono a loro familiari, vi sono affezionati e l’effetto dei giochi finisce per essere doloroso anche nella capitale come lo è nei distretti che non avrebbero mai voluto vedere morire delle persone care. Gli Hunger Games diventano per tutti una tragedia e la rivolta dilaga… ma questo ci sarà raccontato nei prossimi episodi.

Le musiche, esclusivamente strumentali, scelta comune ai due film, ottenute dalla collaborazione tra i Coldplay e James Newton Howard, riescono ad aggiungere drammaticità alle immagini e ad arricchire la forza visiva del film.

Una perdita rispetto al primo film è nella vividezza delle immagini. Un’opacità e una nebbia che in alcuni momenti somiglia quasi ad una sfocatura, non disegna bene la profondità dei paesaggi che appaiono meno nitidi e brillanti, né gli oggetti in primo piano di cui si perde il dettaglio. L’arena, così come la palestra in cui si allenano i tributi, fanno un brusco passo indietro in quanto a progresso tecnologico, come in un vecchio videogames, e ne risentono anche gli effetti speciali che erano più accurati nel primo film e più futuristici.

Manca la luce fredda e un po’ metallica del film di Gary Ross che accentuava il contrasto cromatico tra la sfavillante Capitol City, sfarzosa capitale nello stile Antico Impero di Las Vegas, dagli eccentrici abitanti così riccamente abbigliati e vistosamente truccati, e i toni quasi monocromi e terrosi dei distretti di Panem. Le tinte sottotono, più calde e un po’ invecchiate del film di Lawrence segnano un passaggio dalla fantascienza alla realtà, dal futuro remoto del XXI secolo al seicentesco naturalismo barocco, che su un piano estetico è la differenza più lampante tra i due film, ed è solo una questione di gusti.

Molte le scene ben riuscite, come quella del treno che attraversa i distretti per il tour della vittoria e i ragazzi scoprono sui muri graffiti con il simbolo della ghiandaia imitatrice, primo segno che la rivolta è nell’aria; o quella in cui Katniss e Peeta parlano con sincera commozione alle famiglie dei tributi morti del distretto 11 che emoziona più del libro. Durante la festa dei vincitori a Capitol City, il presidente Snow guarda Katniss scuotendo la testa in segno di disapprovazione e il calice del brindisi si tinge dei riflessi rossi dei fuochi d’artificio, inquietante anticipazione dello spargimento di sangue che seguirà non soltanto gli Hunger Games.

La ragazza di fuoco

UK-Cover-Catching-FireIl secondo film della saga Hunger GamesLa Ragazza di Fuoco diretto da Francis Lawrence e arrivato anche nei cinema italiani, è più promettente del primo. Negli USA si registrano incassi da record che superano la saga di Twilight.

Il libro, che in vista dell’uscita del film è stato ristampato in 50 milioni di copie solo in America dà più spazio all’analisi delle conseguenze politiche e sociali degli Hunger Games e all’inquietudine dei protagonisti.

Katniss Everdeen è La ragazza di fuoco. La settantaquattresima edizione degli Hunger Games si è conclusa ed è ancora viva. Vorrebbe sentirsi al sicuro, rimuovere completamente dalla memoria il ricordo di quell’orrore e fingere che sia stato solo un brutto sogno. Ha smarrito il senso di sicurezza che aveva costruito, seppure a fatica tra tanti stenti e timori, nel suo vecchio mondo in cui sapeva riconoscere il suo posto nella vita. Vorrebbe sentirsi libera ma le torture fisiche e psicologiche subite la rendono preda di incubi e visioni.

L’universo distopico del primo libro degli Hunger Games è ricreato da Suzanne Collins nel nuovo capitolo La ragazza di fuoco, insinuando in uno scenario relativamente sereno le nuove paure di Katniss, l’opprimente senso di minaccia e di vendetta che incombe su di lei e la sua famiglia che unito alla crescente oppressione governativa e alle condizioni ancora più precarie in cui versano i distretti hanno un forte impatto emotivo.

Katniss non è un’eroina, è una ragazza spaventata di diciassette anni, insicura, asociale, a volte anche egoista, che non rispetta le regole e che ha vinto i sadici Hunger Games grazie al suo istinto di sopravvivenza. Ma lo ha fatto sfidando pubblicamente Capitol City, minandone l’autorità e questo fa di lei una ribelle anche se le sue azioni sono state dettate dal semplice desiderio di restare viva e tenere in vita Peeta.

Eppure Katniss è una combattente. È ribelle in modo istintivo e quasi sempre inconsapevole, lascia trapelare le sue emozioni che scatenano la reazione dei distretti. Durante il Tour della Vittoria, nel distretto undici ricorda con sincera commozione Rue, l’indifesa ragazzina che ha cercato di proteggere nell’arena ma che è morta ai suoi piedi: “Rue … sarà sempre nel mio cuore. Ogni cosa bella me la richiama alla mente. La vedo nei fiori gialli che crescono nel prato vicino a casa mia. La vedo nelle ghiandaie imitatrici che cantano sugli alberi. E soprattutto la vedo in Prim, mia sorella. … Grazie per i vostri figli. … Poi, da qualche parte in mezzo al pubblico, qualcuno fischia il motivetto a quattro note con cui Rue riproduceva il canto della ghiandaia imitatrice. … Ogni singolo spettatore si preme sulle labbra le tre dita di mezzo della mano sinistra e le tende verso di me. È qualcosa che si fa nel Distretto 12, è l’ultimo saluto che io ho rivolto a Rue nell’arena”.

Il senso ritrovato della vita che si racchiude nelle parole di Katniss infonde determinazione alla gente di Panem: “tu non hai fatto del male alle persone… hai dato loro un’occasione. Devono solo avere abbastanza coraggio per coglierla”.

La dignità e la bellezza, il valore prezioso di ogni singola vita umana è ciò che Katniss sa riconoscere senza neanche rendersene conto… è la ragazza di fuoco… la fiamma più rivoluzionaria che può animare l’umanità.

Nei distretti l’esultanza della gente si unisce alla collera, al grido di vendetta. Le folle turbolente non arretrano più contro l’esercito dei Pacificatori che cerca di arrestarle anche sparando a caso, non hanno più “quell’aria da bestiame rassegnato”, sono inferocite e sventolano stendardi col volto di Katniss, la ghiandaia imitatrice diventata simbolo della rivolta, e “nulla potrà invertire il corso degli eventi”. La ragazza di fuoco ha acceso una scintilla, la fiamma è divampata e non è più possibile spegnerla, l’incendio della rivolta ormai attraversa i distretti.

Neppure la nuova edizione dei giochi, quella della memoria, commemorativa dei giochi stessi, ancor più sadica della precedente e raccontata da Suzanne Collins con uno stile scarno, diretto e spietato nella descrizione delle uccisioni di una violenza che lascia senza fiato perché appare quasi naturale, riuscirà nel suo scopo. L’ultima mossa di Capitol City, architettata strategicamente per liberarsi della giovane eroina finisce per rivelare più chiaramente tutta l’ingiustizia, la barbarie e la crudeltà di Capitol City e degli Hunger Games. Ciò che hanno subito gli abitanti di Panem è “così sbagliato, così ingiustificabile, così malvagio da non lasciare altra scelta” che combattere ma solo lo sguardo inorridito di una ragazza è riuscito a far luce su chi sia il vero nemico.

Il nemico dell’umanità che vorrebbe uccidere anche la speranza, dimostrare che anche quella è un’illusione, come i sogni per cui vale la pena non arrendersi mai.